Nè indipendente, nè Usa: uno status a metà quello dell'arcipelago caraibico, che il prossimo novembre deciderà se fare il passo definitivo verso gli Stati Uniti. Il sesto referendum nella sua storia, a lungo dominata dagli spagnoli, prima del controllo a stelle e strisce. Tra uragani, terremoti e una profonda crisi economica e sociale, la voglia di cambiare è legata ai finanziamenti di Washington. Che avrà comunque l'ultima parola
Un referendum per diventare il 51esimo Stato Usa. È quello su cui saranno chiamati a decidere i cittadini di Portorico, arcipelago caraibico incastonato tra la Repubblica Dominicana e le Isole Vergini. «Un passo avanti verso l'uguaglianza: abbiamo promulgato la legge per definire lo status finale di Puerto Rico», ha annunciato la governatrice Wanda Vázquez. Il popolo portoricano, ha aggiunto Vázquez, esponente del Partido Nuevo Progresista, «avrà, una volta per tutte, l'opportunità di definire il futuro dell'isola».
La consultazione, fissata per il 3 novembre, in coincidenza con le elezioni politiche, conterrà un semplice quesito: «Portorico dovrebbe essere ammesso tra gli Stati Uniti d'America?».
Per la verità, il referendum non vincolante - per diventare a tutti gli effetti il 51esimo Stato federale servirà un voto anche del Congresso Usa - è il sesto della storia.
Le precedenti consultazioni, infatti, avvenute nel 1967, nel 1993, nel 1998 e nel 2017, non hanno ottenuto l'approvazione statunitense.
Dagli spagnoli a Washington: un Paese a metà
L'«uguaglianza» evocata dalla governatrice consiste nella parificazione agli altri 50 Stati Uniti d'America.
Lo status di Portorico, infatti, è una via di mezzo: né Stato indipendente, né Stato Usa. Colonia spagnola per quattro secoli, possedimento degli Stati Uniti dal 1898, dopo una breve campagna militare seguita allo scoppio della guerra ispano-americana, Portorico è da oltre un secolo sotto il controllo Usa.
Nel 1917 una legge del Congresso americano garantì ai cittadini portoricani la nazionalità statunitense (uno stratagemma per arruolarli come soldati durante la Prima Guerra mondiale). Da allora, l’avvicinamento verso Washington è stato costante. Ma mai definitivo.
Oggi il Commonwealth of Puerto Rico - che conta poco meno di quattro milioni di abitanti - è ufficialmente uno Stato libero associato, ovvero un territorio non incorporato facente parte degli Stati Uniti. Il cui presidente è Donald Trump e la cui moneta è il dollaro.
I portoricani, che hanno il passaporto americano, non possono votare alle elezioni statunitensi e non hanno una rappresentanza elettorale al Congresso, se non un membro nella Camera dei rappresentanti senza diritto di voto.
Una situazione giuridica complicata, che negli ultimi anni si è tentato di definire una volta per tutte: nel 2012 e nel 2017 i voti favorevoli all'adesione sono stati la maggioranza, anche se l'ultima consultazione ha registrato un'affluenza del 23%.
Tra uragani e terremoti: una crisi soprattutto economica
Uno scetticismo dettato dalla freddezza nordamericana, che non sembra voler affrettare il matrimonio. Nella capitale San Juan, è il partito di governo a spingere per l'unificazione sotto la bandiera a stelle e strisce, mentre l'opposizione, in particolare il Partido Popular Democrático, preferisce conservare l'attuale status.
Netta, invece, la contrarietà degli indipendentisti, che vorrebbero cambiare ma in senso opposto.
La vera posto in gioco, però, è di tipo economico: per la maggioranza, l'adesione agli Usa comporterà maggiori possibilità di ricevere finanziamenti da Washington (in questo consisterebbe l'«uguaglianza» rispetto agli altri Stati).
Negli ultimi quattro anni Portorico ha dovuto affrontare due uragani, terremoti e una pandemia, che si sono aggiunti a una profonda crisi economica e fiscale.
Ma chissà se una nuova stella potrà essere d'aiuto.
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