di Diego Costa*
Compie 80 anni Edson Arantes do Nascimento, per tutti Pelé, "patrimonio storico-sportivo dell'umanità". Figlio di Dondinho, entrò ben presto nell'Olimpo del calcio. Dai piedi sporchi di vernice per ingannare gli organizzatori di un torneo alla vetta del mondo, fino alle sirene della politica. Ma sempre da uomo di campo. Auguri al supereroe delle scarpe bullonate
Dei suoi 80 anni, Edson Arantes do Nascimento ne ha trascorsi almeno settanta sui campi da gioco. Nato nello Stato di Minas Gerais, grande quasi due volte l'Italia, entroterra centro meridionale del Brasile, si trasferì con la famiglia nello stato di San Paolo, nel piccolo centro di Bauru, dove mosse i primi passi. Edson, il figlio di Dondinho, calciatore conosciuto fortissimo nel gioco aereo, era già allora un predestinato.
Qualcuno lo ritiene il primo campionissimo del pallone nell'era della televisione. Non so perché si pensi questo. Credo al contrario che le poche immagini che riguardano il Re (O Rei) del calcio, e il mix tra le voci popolari, l'incredibile numero di gol segnati (anche sul numero esatto ci sono pareri discordanti, di sicuro più di 1.230) e le pochissime testimonianze televisive, ne abbiano favorito il mito, naturalmente condito da incredibili prodezze. Pelé è stato "la rivelazione, la conferma e la stella matura" dei tre titoli mondiali vinti dalla Seleçao che hanno comportato il successo definitivo nella coppa Jules Rimet.
Supereroe delle scarpe bullonate
Per un ragazzino come me, nato alla fine degli anni '50 - avevo un anno quando il Brasile di Feola trionfò in Svezia - Pelé ha indubbiamente rappresentato un supereroe delle scarpe bullonate. E tutto contribuiva a creare il mito. Non c'erano gli eroi della Marvel, ma c'era Superman, e c'era L'Uomo Mascherato, ovvero l'ombra che cammina; e poi il mago Mandrake. Nelle suggestioni di un adolescente, Pelé era una summa di tutti e tre i grandi idoli dei fumetti. Superman, perché era il più forte di tutti, ma c'era la kryptonite: Pelé era fragile, come dimostrarono i mondiali in cui, atteso alla consacrazione, fu detronizzato dalle rudezze prima della Cecoslovacchia (1962 in Cile) e poi del Portogallo (1966, Inghilterra). L'Uomo Mascherato, perché la sua leggenda, trascinata dai numeri, era poco apparente, quasi "esoterica": il calcio di club dall'altra parte del mondo non godeva della visibilità di oggi o degli ultimi 40 anni. Infine Mandrake, perché davvero faceva magie, sembrava nascondere il pallone per poi farlo riapparire: chiudendo gli occhi viene subito in mente il pallonetto in area della Svezia, nella finale dei mondiali del '58, chiuso con un morbido tiro al volo di collo, che gonfia la rete. E dodici anni più tardi, la finta straordinaria per disorientare un grande portiere come Mazurkiewicz, nella semifinale contro l'Uruguay, per poi tornare sul pallone e infilare la porta sguarnita; infine, aggiungerei purtroppo per i colori azzurri, il gol di apertura in finale con l'Italia a Città del Messico, su traversone di Rivelino, un balzo felino incredibile, sopra l'esterrefatto Burgnich. Quanto tempo sia rimasto in area quell'uomo alto solo 172 centimetri e dove abbia colpito il pallone ce lo si chiede ancora nel rivederlo.
Pelé, un fenomeno da ammirare, un avversario che non si poteva odiare, neppure quando stava firmando la cocente delusione di privare gli azzurri di un titolo mondiale.
Compie ottant'anni, Edson Arantes do Nascimento. Auguri.
Le sirene della politica
Personalità spiccata sul campo, per taluni manipolata nella vita extrasportiva, dal potere politico e da quello politico sportivo. È stato pure ministro dello Sport in Brasile.
Di sicuro, Pelé non ha mai preso posizioni irredentiste. E, accusato da altri campionissimi di lasciarsi usare, non ha alzato il guanto di sfida.
Il suo compleanno è dunque quello di un campionissimo del pallone che per il mondo tale e solo tale ha voluto essere. Anche se ha appoggiato politici in Brasile, anche se ha sorretto ambiziosi presidenti federali, anche se insomma ha avuto ruoli importanti al di fuori del rettangolo di gioco, ha sempre dato un'idea di non voler porre l'accento su queste faccende.
Privilegiando di sé la figura di un Cincinnato, un "uomo di campo".
I piedi nella vernice nera...
Ricordo l'eccitazione di un ragazzino nel sapere - eravamo a cavallo tra gli anni '60 e '70 - che il Santos avrebbe fatto una tournée in Europa. Verrà in Italia? Passerà di qui?
La delusione di sapere che la squadra carioca avrebbe giocato due amichevoli in Francia contro la Nazionale transalpina... Ebbene, ricordo il goffo tentativo di riuscire a intercettare un segnale televisivo (qualcuno mi aveva detto che in certe sere era possibile vedere la televisione francese)… e l'emozione di intravvedere pallide sagome, solo per qualche attimo nitide. Giusto per il tempo di vedere Pelé in area effettuare una finta che fece cadere davanti a lui 3 o 4 nazionali francesi, prima di infilare la porta.
Qualcosa di assai più eccitante della rovesciata cinematografica del famoso Fuga per la vittoria, girato con tante stelle del pallone internazionale, diverse delle quali trasferitesi al Cosmos New York proprio come il numero 10 brasiliano.
Il cui mito comportava la lettura di qualsiasi cosa lo riguardasse, e già sapere che aveva debuttato in un torneo in cui erano richiesti gli scarpini e lui, insieme ai suoi compagni, aveva passato i piedi nella vernice nera, prima del fischio d'inizio, per trarre in inganno gli organizzatori, tanto bastava per considerarlo non un semplice Re ma l'Eletto.
Un Dio. Fatto uomo, in grado di correre i 100 metri in 11 secondi netti, quando il primato del mondo sulla distanza era appena appena inferiore ai 10 netti; irresistibile nel dribbling, generoso nel distribuire il gioco, difficilissimo da marcare. Giovanni Trapattoni, che riuscì ad annullarlo a San Siro, quando il Trap era mediano al Milan, costruì la sua fortuna su quella straordinaria partita. Viene tuttavia da pensare che, mentre in Italia il mito era Pelé, in Brasile un José Altafini giovanissimo veniva chiamato Mazzola, eroe di un'Inter dominatrice in campo europeo. Come a dire che le suggestioni erano di gran lunga più forti, e persino romantiche, della testimonianza diretta…
Quindi, lasciateci dire: buon compleanno O Rei.
Pelé e gli altri dei
Forse vorreste sapere se… Sì, avete capito bene di cosa sto parlando. Risponderò schiettamente. Fare una classifica "all time" è impossibile, ogni campionissimo, tra quelli che fanno parte dell'Olimpo, in sé e per sé incarna una divinità. Ognuno differente, perché eroi di un calcio differente, espressione di diverse generazioni. Troppe variabili: la tecnica, l'atletismo, l'altruismo, l'umiltà, la leadership, la genialità, il rispetto dei compagni e degli avversari...
Pelé è stato più attaccante di Maradona, Diego più universale di lui, Di Stefano più eclettico nei ruoli offensivi, e come il grande Alfredo così Messi... e così via, considerando pure Cruyff, Beckenbauer, Ronaldo e Cristiano Ronaldo.
Quando mi chiedono di stilare una classifica, io rispondo che c'è una grande differenza tra il più grande di tutti e un campionissimo. Il più grande è colui che gioca da numero uno ma fa giocare bene tutta la squadra con cui si schiera. Ci sono state figure di grandi campioni, in passato, certamente in grado di incantare, ma che tendevano ad accentrare il gioco su di sé e non essere organici al successo della squadra.
Uso sempre questo come metro di giudizio personale. Sapendo bene che - questo è il fascino di uno sport popolare - ognuno possa restare della propria idea, in un politeismo tecnico atletico che resta la più corretta forma di religione applicata al pallone.
Mi piace piuttosto, e qui concludo, accostare Pelé a ciò che Jesse Owens silenziosamente volle dire, per la gente dalla pelle nera, nell'atletica, a Berlino 1936. Meno apertamente e palesemente di Cassius Clay o di Robinson, "armato" del sorriso e della sua arte unica, la "perla nera" ha portato il suo mattoncino per il rispetto delle persone: «Il razzismo esiste e va combattuto - ha detto di recente - ma il calcio di oggi è un mix di razze, religioni, colori. È l'insoddisfazione sociale a essere considerata razzismo, la protesta verso chi amministra un Paese porta all'aggressività».
*Diego Costa, classe 1957, è un giornalista bolognese. Ha lavorato, tra gli altri, per Il Resto del Carlino e per La Repubblica, per cui ancora scrive del suo amato Bologna. Tifosissimo dei rossoblù e della Fortitudo, è un grande esperto di sport e in particolare di calcio. Quando viene chiamato in causa da una radio o da altri giornali, chiede sempre: «Sei sicuro che volessi parlare con me e non con Diego Costa dell'Atletico Madrid?».
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