di Ruggero Tantulli
Il presidente Alvarado annuncia lo stop al negoziato con il Fmi per fermare blocchi stradali, cortei e violenze. Nel piano contestato, un prestito da 1,75 miliardi di dollari, l'aumento delle tasse e la vendita di asset statali come la Banca nazionale. Ma l'appello al dialogo non soddisfa la piazza. Un accordo sepolto o solo rinviato?
Si fermano le trattative tra la Costa Rica e il Fondo monetario internazionale. Il presidente del Paese centroamericano, Carlos Alvarado, ha annunciato domenica scorsa il ritiro della proposta all'istituzione finanziaria con sede a Washington per un prestito di 1,75 miliardi di dollari.
La cifra, chiesta la scorsa estate per fronteggiare la crisi in atto in Costa Rica, contemplava un pacchetto di aiuti legati a riforme non gradite a gran parte della popolazione. Che dallo scorso 17 settembre, data dell'annuncio dell'accordo, ha manifestato insistentemente in tutto il Paese, con blocchi stradali, scioperi e proteste anche violente.
Il messaggio del presidente
«Comprendendo il sentimento in essere ma anche la necessità di intraprendere azioni attuabili, il governo non andrà avanti con la sua proposta iniziale - così il presidente Alvarado nel suo messaggio via radio e tv -. Questo per dialogare e bilanciare le proposte di cui il Paese ha bisogno per risolvere la situazione».
Un passo indietro, quindi, dettato dalla pressione di larga parte del Paese, dalle opposizioni ai sindacati, contrari all'aumento delle tasse e alla vendita di beni statali come l'Istituto nazionale di previdenza e la Banca nazionale.
Riconosciuta la preoccupazione della maggior parte dei costaricani per la situazione economica, la disoccupazione e la pandemia di coronavirus, il 40enne presidente di centro-sinistra ha chiesto un dialogo nazionale per fronteggiare l'emergenza economica e la fine dei blocchi e delle violenze.
Senza successo, perché - secondo sigle sindacali e partiti di sinistra come il Frente Amplio - il negoziato è solo sospeso, non cancellato definitivamente. Tanto è vero che a partire da questa settimana il presidente costaricano - con un passato da scrittore - inizierà un dialogo con alcuni settori del Paese, con l'obiettivo di ottenere il consenso alla definizione dell'accordo con il Fmi.
La piazza non smobilita
Martedì 6 ottobre varie associazioni e movimenti sociali hanno manifestato contro il governo nella capitale San José, al grido di «Costa Rica no se vende, Costa Rica se defiende». I blocchi e le proteste, quindi, non si fermano. «I ricchi paghino come ricchi, i poveri come poveri», è uno degli slogan della piazza costaricana, che tra i principali motivi di opposizione alle misure economiche previste dall'accordo con il Fmi pone la questione tributaria: fine dei privilegi e dell'evasione fiscale da parte delle grandi società e progressività come principio non negoziabile.
Le misure contestate
Il piano negoziato con il Fmi - un prestito di 1,75 miliardi di dollari che si sarebbero aggiunti ai 504 milioni già approvati per fronteggiare l'emergenza Covid - prevedeva una serie di aggiustamenti fiscali tra aumenti e nuovi tributi, come quello sui bonifici e sugli assegni (tra le misure più contestate, non solo a sinistra).
Oltre alle tasse, la riduzione della spesa pubblica e la vendita di asset strategici, in linea con i dettami neoliberisti tipici dei programmi di aggiustamento strutturale. Tutto ciò in un Paese con un'economia in contrazione per il 5% nel 2020, secondo le previsioni.
La Costa Rica, fino a pochi anni fa ritenuta il Paese più felice del mondo, non se la passa più tanto bene.
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