di Edmondo Peralta
Sette uomini erano sgattaiolati all'interno di un container su un vagone a Šid, in Serbia, alla frontiera con la Croazia. Volevano arrivare a Milano. I loro resti completamente decomposti sono stati ritrovati tre mesi dopo ad Asunción, la capitale paraguayana, in un container colmo di fertilizzanti. Anche loro sono vittime della rotta dei Balcani, una delle porte d'accesso - sempre più blindate e pericolose - che portano all'Unione europea
Si erano conosciuti nei Balcani ed erano in cerca di un futuro in Europa, a Milano. Sette uomini, quattro marocchini, due algerini e un egiziano. A viaggiare - ed arrivare 15mila chilometri più lontano dalla destinazione immaginata - sono stati soltanto i loro corpi, senza vita. I loro nomi sono Ahmed Belmiloudi, Mohamed Hadoun, Rachid Sanhaji, Said Rachir, Zugar Hamza, Sidahmed Ouherher e Yessa Aymen. I loro volti non erano più riconoscibili: le autorità li hanno identificati attraverso le indagini e testimonianze di amici e familiari delle vittime. Secondo l'autopsia sarebbero morti di asfissia poco dopo la chiusura del container nel quale si erano introdotti spontaneamente: dentro c'erano quintali di fertilizzante e 30 cm di spazio sopra le loro teste. Con loro anche piccole quantità di cibo, latte e acqua, consumate poco o per nulla: indizio che aveva subito lasciato pensare a una morte sopraggiunta poco dopo la partenza e la chiusura del grande contenitore mercantile.
I sette giovani erano partiti alla fine di luglio da Šid, cittadina serba al confine con la Croazia, ma invece della rotta da loro prevista - Zagabria, la Slovenia e poi Milano - il treno è arrivato al porto croato di Rijeka. A quel punto il container con dentro i sette uomini - già morti - è stato trasferito su una nave mercantile diretta in in Egitto, Spagna, Argentina e infine in Paraguay.
«Niente segnale, niente WiFi. Ci sono persone che non sono affatto gentili. Spero che Dio mi aiuti. Dio mi ha aiutato e ho trovato il WiFi in una stanza e ho potuto chiamarti. Ci hanno portato in Serbia. La mia testa sta per esplodere. Tutto ciò che ho rischiato è stato vano».
(Gli ultimi messaggi ricevuti dalla madre di Sidahmed Ouherher)
Trascorsi tre mesi di navigazione, il 19 ottobre il carico è arrivato in Paraguay, al porto fluviale di Villeta, a 40 chilometri da Asunción: quando gli impiegati della ditta importatrice l'hanno aperto, quattro giorni dopo, hanno sentito il terribile olezzo e avvertito la polizia, che poi ha fatto la macabra scoperta.
Perché rischiare la vita in un container
«Si sono nascosti lì perché se la polizia li cattura, vengono torturati», ha detto Smail Maouchi, un amico delle vittime, residente a Sarajevo, al giornale paraguaiano ABC Color. La sua testimonianza e quella dei familiari sono state decisive per indirizzare le indagini e identificare i sette uomini.
Maouchi si riferisce ai controlli sempre più stringenti e spesso violenti della polizia al confine tra Serbia e Croazia. Soltanto a settembre i respingimenti (una pratica illegale secondo il diritto internazionale) dalla Croazia alla Serbia sarebbero stati almeno una quarantina. I respingimenti non sono solo formalmente illegali ma avvengono concretamente con violenza e senza il rispetto dei diritti umani, secondo le denunce raccolte dalle organizzazioni attive sul posto. La Croazia ovviamente fa già parte dell'Unione europea, la Serbia invece non ha ancora completato il processo di adesione.
Le associazioni umanitarie che lavorano lungo la rotta balcanica monitorano e riportano l'aggressività della polizia di frontiera: gli agenti giungono fino a fare irruzione nelle case in cui vivono i volontari che forniscono cibo e assistenza ai migranti bloccati al confine.
Attualmente - segnala il quotidiano spagnolo El Pais - ci sarebbero almeno 9mila persone - che arrivano da Asia, Africa ed Europa dell'est - bloccate nella cittadina di Šid (15mila abitanti). Si trovano in cattive condizioni igieniche, di salute e hanno appena accesso al cibo.
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