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Leonardo Barcelo, un cileno a Bologna. «Allende il più grande. Ora una nuova Carta»

di Ruggero Tantulli

Il socialismo cileno di Salvador Allende, il golpe dei militari («Ero a 150 metri dalla Moneda»), l'arresto e le botte. Poi l'esilio e la nuova vita italiana, tra manifestazioni per il suo Cile violentato dalla dittatura di Pinochet e la solidarietà delle nostre piazze. A 50 anni dalla vittoria di Unidad Popular, Leonardo Barcelo, lettore di spagnolo in pensione ed ex consigliere comunale a Bologna, si racconta a ilPeriodista. Dalla politica italiana all'estallido social del Cile di oggi, che si avvia al referendum del 25 ottobre: «Nella partecipazione popolare vedo le stesse speranze del progetto di Allende»


«Salvador Allende? Il più grande presidente del Cile». Lo dice senza esitazioni Leonardo Barcelo, esule cileno che si è rifatto una vita a Bologna. Diventando lettore di spagnolo all'università e tre volte consigliere comunale nella città delle Due Torri. Ma sempre con il suo Cile nel cuore. E con il golpe di Pinochet negli occhi. «Ero a 150 metri dalla Moneda, ho visto i carri armati e il palazzo presidenziale bombardato». Poi l'arresto, le botte e il terrore. Fino all'espatrio, in un'Italia ancora solidale. Frammenti di vita raccontati anche nel film Santiago, Italia (2018), intervistato da Nanni Moretti.


Nato 72 anni fa a Teno, circa 300 chilometri a sud di Santiago, Barcelo ora è in pensione, dopo una vita di militanza politica. Con il Partito socialista del Cile in gioventù, con i Ds e poi con il Partito Democratico nella sua vita italiana. «Un balzo troppo grande? Serve contrastare l'avanzare delle destre». In mezzo, anni di battaglie per i diritti umani e in solidarietà con il Cile violentato dalla dittaturaQuante emozioni da quelle piazze italiane strapiene per un Paese così lontano»).


Oggi, a 50 anni dalla vittoria di Unidad Popular, il Cile ferito dal coronavirus e dalla repressione dei carabineros vive una stagione di lotte, per il cambio della Costituzione e per costruire una società più giusta («Nella partecipazione popolare vedo le stesse speranze del progetto di Allende»).

Barcelo con Ernesto Galaz, ex comandante dell'aviazione cilena e compagno di cella di Alberto Bachelet (padre di Michelle)

Partiamo dall'11 settembre 1973, il colpo di Stato in Cile.


«Avevo 25 anni, ero membro della direzione regionale del Partito socialista a Santiago. Quel giorno, come tutte le mattine, andai al lavoro, al ministero dell'Agricoltura. Ero a circa 150 metri dalla Moneda, ho visto i carri armati e il palazzo presidenziale bombardato. Il presidente Allende si suicidò. Fu un trauma collettivo e anche personale».

Ve l'aspettavate il golpe?


«Sì. Il 29 giugno dello stesso anno già c'era stato un tentativo di colpo di Stato, fermato dal comandante in capo dell'esercito Carlos Prats. Si sperava che il golpe non avvenisse ma era una possibilità contemplata. Prats poi si dimise a fine agosto e al suo posto venne nominato Augusto Pinochet. E dopo il golpe Prats andò a Buenos Aires, in Argentina, dove fu ucciso da un commando per ordine di Pinochet. Era una delle prime azioni del Piano Condor».

Torniamo all'11 settembre. Racconti la sua esperienza.


«Venni arrestato e picchiato a sangue dai militari insieme a un'altra ottantina di persone. Poi ci misero al muro e subimmo la fucilazione simulata, sparando a salve per intimorirci: ci chiedevano dove tenessimo le armi ma nessuno di noi era armato. Volevano solo terrorizzarci e giustificare il golpe».

Poi cosa successe?


«Per due giorni fummo colpiti a calci e poi liberati. Restai un po' nascosto e nell'ottobre '73 riuscii a entrare nell'ambasciata italiana. Rimasi lì fino a fine dicembre, poi i militari mi autorizzarono a uscire e presi un aereo per l'Italia».

Com'era il Cile di Allende?


«C'era un progetto politico di grande innovazione a livello nazionale e internazionale, che coniugava giustizia e libertà: giustizia sociale all'interno di un sistema democratico. Questo fu il grande merito della coalizione di Unidad Popular e di Salvador Allende, il più grande presidente del Cile e ancora oggi un esempio».

Un socialismo in via democratica.


«Esatto. Questo era l'elemento principale di quell'esperienza, che creava grande preoccupazione nel governo degli Stati Uniti: vedevano in discussione i loro interessi in politica estera ed economici».

Ha conosciuto Salvador Allende?


«Nel 1958, quando avevo dieci anni. Abitavo in un paesino di duemila abitanti. Una sera d'inverno molto fredda, durante la campagna elettorale (poi Allende perse per non più di 40mila voti), venne questo senatore, che guardavo con ammirazione, e si mise a parlare dopo essere intervenuto, nonostante fossimo non più di 15 persone. Mi colpì per questo. Poi a Santiago, dove ho vissuto dagli 11 anni e fatto l'università, l'ho visto altre volte».
Leonardo Barcelo davanti alla Moneda a Santiago del Cile l'11 settembre 2013, a 40 anni dal golpe contro Allende

Fine dicembre '73. Il suo arrivo da esule in Italia.


«A Roma. Da subito mi impegnai nel comitato Italia-Cile, animato dai rappresentanti di vari partiti, associazioni e sindacati cileni in esilio. Tutti di provata fede democratica e antifascista. Organizzavamo manifestazioni in solidarietà con il Cile in diverse città italiane».

Quanti erano gli esuli cileni in Italia?


«Circa 1.500. Siamo stati trattati molto bene, l'Italia non ha mai riconosciuto il governo di Pinochet. Ricordo che tutto l'arco parlamentare italiano supportava il comitato Italia-Cile, escluso il Msi».

Quando si trasferì in Emilia-Romagna?


«Nel febbraio '74 la Regione Emilia-Romagna offrì a una quarantina di famiglie la possibilità di trasferirsi e io accettai. Inizialmente a Modena, dove rimasi fino al '79 lavorando come bibliotecario alla biblioteca comunale e convalidando la mia laurea in Lingue moderne. Poi, nel 1980 vinsi una selezione come lettore di lingua straniera presso l'Università di Bologna: a Bologna ho coordinato gli esiliati cileni dell'Emilia-Romagna fino al ritorno della democrazia in Cile, nel 1988».

In Italia ha continuato il suo impegno politico.


«Questo è un grande merito della solidarietà italiana, che ci ha permesso prima di essere accolti con attenzione, poi di portare avanti i nostri ideali politici attraverso la militanza».
Leonardo Barcelo durante un comizio. Alle sue spalle Renzo Imbeni, sindaco di Bologna dal 1983 al 1993

Diceva che voi esuli siete stati accolti bene.


«Ricordo manifestazioni oceaniche, piazze italiane strapiene in solidarietà con un Paese lontanissimo geograficamente come il Cile. Che emozione per noi! La gente per strada ci chiedeva informazioni e voleva darci una mano per contrastare la dittatura di Pinochet».

Sembra un altro mondo.


«In quasi 50 anni è cambiato molto. Non c'è più quella cultura, la politica internazionale era in primo piano. Ci si mobilitava per la pace, esprimendo solidarietà al Vietnam e al Cile in particolare».

Secondo lei non succederebbe più?


«Mi auguro che non si ripetano le violenze di Pinochet, ma oggi è cambiata la forma della politica: forse gli strumenti sarebbero i media e i social, non più le piazze. All'epoca mi colpirono sia la solidarietà politica sia la conoscenza dei fatti cileni: andavo a parlare nelle scuole, in un sindacato o altrove e chi interveniva sapeva molto della situazione. Una cultura, quella di interessarsi degli altri Paesi, che si è un po' persa. Non esisteva solo il proprio Paese, si pensava che la politica fosse legata a quello che succedeva anche in altri Paesi».

Nel 1992 lei è diventato cittadino italiano. E l'impegno politico ha mutato forma.


«Non potevo essere indifferente rispetto a quello che succedeva nel Paese dove abitavo: prima ho iniziato a occuparmi di diritti umani e dopo la cittadinanza mi sono iscritto ai Democratici di sinistra. Dal '99 al 2004 sono stato segretario politico dei Ds nel quartiere Navile (che comprende la Bolognina, ndr) di Bologna, uno dei quartieri più popolari».

E nel 2004 è stato eletto consigliere comunale a Bologna.


«Sono stato il quinto più votato nella lista dei Ds. Ringrazio i cittadini bolognesi che hanno dato questa possibilità a un cittadino di origine straniera. Poi sono stato rieletto nel 2009 e anche nel 2011: due mandati e mezzo diciamo (quello centrale interrotto per le dimissioni dell'allora sindaco Flavio Delbono, ndr)».

Di cosa si è occupato a Palazzo d'Accursio?


«Da consigliere comunale mi sono occupato molto di immigrazione e diritti umani, ma non solo, perché penso sia necessario occuparsi dei problemi della comunità dove si vive. Parlare solo degli stranieri è come mettersi in un angolo da soli. Agli stranieri in Italia, infatti, consiglio di interessarsi ai problemi del luogo dove vivono, anche politicamente».
Leonardo Barcelo (al centro) insieme al giornalista e fotoreporter Mario Rebeschini (alla sua destra) e a Roberto Morgantini, vicepresidente dell'associazione Piazza Grande e fondatore delle Cucine Popolari di Bologna (alla sua sinistra)

Torniamo al Cile, che dallo scorso ottobre vive una stagione di grandi mobilitazioni popolari. Proteste nate quasi per caso ma che nascono da un profondo malcontento nei confronti delle eccessive disuguaglianze. Condivide le richieste di una nuova Costituzione e, in definitiva, di una società più giusta?


«Totalmente. I diritti e la democrazia non sono garantiti per sempre: dopo l'esperienza di Pinochet chi avrebbe mai pensato di vedere scene di violenza così terribili, da parte dei carabineros? In realtà con il referendum del 5 ottobre 1988, che Pinochet perse, si aprì la strada per la transizione democratica, ma non tutto il passato della dittatura è andato via. Per esempio la Costituzione vigente, del 1980: una camicia di forza che ha impedito le trasformazioni necessarie a 30 anni dal ritorno alla democrazia».

Fine delle privatizzazioni, diritti per donne e indigeni, riduzione delle disuguaglianze: in poche parole le manifestazioni cilene di questi tempi si scagliano contro il modello economico neoliberista cristallizzato dalla Costituzione pinochetista.


«Sì. E grazie all'estallido social la destra cilena ha accettato il referendum, fissato ora per il 25 ottobre. Questa è la strada maestra per costruire un Cile nuovo, di uguaglianza».

Voterà?


«Voterò a Milano, al consolato cileno, per una nuova Costituzione discussa in una Assemblea Costituente. È un momento importante per costruire un nuovo Cile: vedo un forte legame tra il 4 settembre 1970 (data della vittoria di Unidad Popular, ndr) e il 25 ottobre 2020. Quella speranza e quella partecipazione popolare servono anche ora».

Mi ha anticipato. Quindi nelle mobilitazioni di oggi rivede le istanze del socialismo di Allende?


«Anche per un altro grande aspetto di Allende: l'unità di tutte le forze progressiste del Paese. Pur con le nostre differenze, ci unimmo intorno a quel progetto. Quell'unità serve anche adesso».

Le piazze cilene di oggi in effetti rappresentano un mondo variegato.


«Quest'anno sono stato quasi cinque mesi in Cile e ho partecipato ad alcune manifestazioni. È vero, è un mondo molto variegato che ha bisogno di un progetto unitario, anche in vista delle elezioni presidenziali del 2022».
Manifestazione a Santiago del Cile. Foto di Stefania Stipitivich

Negli ultimi mesi il Cile si è dovuto occupare anche del coronavirus.


«Che ha fatto circa 12mila vittime, una cifra alta per 18 milioni di abitanti. Il Paese è stato colpito anche per le sue profonde disuguaglianze sociali».
Dibattito con Luís Sepulveda alla Festa dell'Unità

Tirando un po' le fila, vista la sua storia personale e politica, come ha fatto a passare dal Cile di Allende al Pd? Voglio dire, come fa a conciliare il socialismo di Unidad Popular e un partito che, per tanti, ormai non rappresenta più le istanze delle fasce popolari?


«Sono entrato prima nei Ds e poi ho aderito al Pd. Serviva una forza politica che facesse argine al populismo, che nasce da Forza Italia e da Berlusconi, non è di oggi. Il Pd, al cui interno in molti si occupano di temi sociali, penso che possa servire a contrastare l'avanzare delle destre. Oggi, in Italia, cerco di rafforzare queste istanze sociali all'interno del Pd, ma la società italiana è profondamente cambiata negli ultimi 50 anni».

Intende dire che c'è stata un'involuzione a livello generale?


«Chi poteva pensare che qualcuno sui social inneggiasse alle SS o negasse i forni crematori? Lo stesso vale per il Cile, dove c'è chi inneggia ancora a Pinochet. Inoltre la gente delusa dal Pd, purtroppo, non è andata verso formazioni a sinistra, ma verso la destra! Se il Pd fosse stato criticato per la sua arrendevolezza al sistema, la risposta logica sarebbe stata opposta».

Non pensa che limitarsi ad arginare la destra sia rischioso?


«Naturalmente non basta contenere la destra. Bisogna proporre riforme avanzate. E insieme alla proposta è importante avere credibilità. Questo vale anche per il Cile».

Un giudizio sul governo Conte?


«È nato come reazione al salvinismo, unendo due forze che sembravano inconciliabili. Cosa avrebbe fatto Salvini al posto di Conte? In questo contesto valuto positivamente il governo, che ha agito secondo buonsenso».

Pensa che le forze di maggioranza debbano continuare a dialogare?


«Credo possano continuare ma seguendo un programma e non solo per conservare la situazione».
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