di Ruggero Tantulli
Ogni 20 maggio gli uruguaiani ricordano i familiari scomparsi, torturati e uccisi dalla dittatura degli anni '70-'80. Le limitazioni dovute al Covid hanno reso questa Marcia speciale, ma non meno partecipata. Anzi. Ne abbiamo parlato con Aurora Meloni, che ha perso il marito, ucciso nel contesto del Piano Condor, la strategia organizzata dalla CIA per eliminare oppositori e militanti di sinistra in America Latina. C'è anche lei tra le promotrici del Processo Condor, celebrato a Roma, che ha reso finalmente giustizia: 24 ergastoli. Uno sguardo sull'Uruguay di ieri e di oggi: da Pepe Mujica al ritorno del neoliberismo. Con il rischio che dopo la pandemia il Paese sprofondi di nuovo
Una Marcia virtuale ma partecipata
Le strade di Montevideo, lo scorso 20 maggio, erano insolitamente vuote. Eppure pareva che ci fosse più gente del solito. Da 25 anni, ogni 20 maggio gli uruguaiani scendono in strada per chiedere verità e giustizia per i desaparecidos della dittatura degli anni '70-'80. Quest'anno, a causa del coronavirus, la Marcia del silenzio è stata virtuale. Ma la capitale era tappezzata di fotografie in bianco e nero con i volti degli scomparsi. E di margherite, simbolo della manifestazione con cui si ricordano le vittime del terrore di Stato, durante gli anni bui non solo dell'Uruguay ma di tutto il Cono Sud.
Tanti i «Presente!» scanditi dai balconi, tanti i partecipanti via social, che per la prima volta hanno coinvolto gli uruguaiani nel mondo.
Una di loro è Aurora Meloni, italiana nata in Uruguay (il padre era originario del Parmense), da molti anni a Milano. «Per questa Marcia si sono mobilitati non solo i familiari dei desaparecidos e i cittadini più impegnati, ma anche tanti che non avevano mai partecipato, al di là degli schieramenti politici», racconta soddisfatta Aurora a ilPeriodista.
La sua storia parla per lei. Studentessa impegnata a sinistra contro la "dictablanda" di Jorge Pacheco Areco, che inaugurò una stagione di repressione sanguinaria, censura e torture, prima ancora della dittatura, lasciò il suo Paese nel dicembre del 1972. Raggiungendo con il marito e le due figlie piccole Buenos Aires.
«In Uruguay la democrazia era stata limitata dalle misure di sicurezza nazionale già da un po', per le strade polizia e militari ("Fuerzas conjuntas") reprimevano violentemente il movimento tupamaro, ma non solo», ricorda. «Noi andavamo in piazza con il Movimento 26 marzo, che, in parte, appoggiava la guerriglia dei tupamaros. Ma il clima era pesante da anni e c'erano poche alternative se non volevamo finire in galera con le bambine».
Pochi mesi dopo, il 27 giugno 1973, ci fu il golpe di Juan María Bordaberry, che sancì l'inizio della dittatura militare in Uruguay.
Il blitz, i mitra e la perdita del marito: cos'era il Piano Condor
Nella capitale argentina era un pullulare di esuli e oppositori politici: ad aprire il ciclo delle dittature militari, infatti, era stato il Brasile nel 1964, seguito immediatamente dalla Bolivia. «Era pieno di brasiliani, boliviani, uruguaiani, paraguaiani e cileni, dopo il golpe di Pinochet dell'11 settembre '73», ricorda Aurora.
Ma la data che segnò per sempre la sua vita è un'altra: il 13 settembre 1974.
Quella notte, alle tre, un gruppo di uomini armati in borghese fece irruzione nel suo appartamento di Buenos Aires, sequestrando il marito 23enne, Daniel Banfi, e altri due ragazzi. Nella stessa operazione vennero sequestrate altre due persone.
I corpi di tre di loro vennero ritrovati un mese dopo a 150 km da Buenos Aires. «Se non fosse stato per un contadino che aveva visto le luci delle macchine che la notte prima avevano scaricato i resti di mio marito e di altre due persone, non avremmo ritrovato i nostri cari, sotterrati di nascosto in condizioni che preferisco non raccontare».
Quelli di suo marito Daniel e degli altri due ragazzi furono i primi omicidi di uruguaiani in Argentina nel contesto del Piano Condor, un'operazione organizzata dalla CIA (Central Intelligence Agency) negli anni Settanta volta a eliminare gli oppositori e in generale i militanti di sinistra in vari Paesi sudamericani.
L'irruzione di quella notte fu eseguita con le modalità operative che in futuro si sarebbero tristemente ripetute in vari Paesi: un commando con i mitra in pugno, i sequestri clandestini, le torture, gli omicidi e le sparizioni forzate.
Delle migliaia di desaparecidos - 196 sono gli scomparsi uruguaiani - i familiari non hanno mai avuto notizie. «Io invece ho ritrovato il cadavere di mio marito e per questo ho denunciato l'assassinio», spiega Aurora, che quella notte riconobbe immediatamente l'uomo che dirigeva il commando: Hector Campos Hermida. «Era un commissario di polizia uruguaiano, conosciuto per pestaggi e torture. Lo avevamo già incontrato a Montevideo nel 1969, quando finimmo in questura dopo una manifestazione».
Una trasferta mirata, quella del commissario: «L'irruzione a Buenos Aires è avvenuta con l’appoggio della polizia locale, d'altronde l'Argentina dopo il ritorno di Juan Domingo Perón non era più un Paese sicuro». Tanto è vero che il 30 settembre 1974 il generale cileno Carlos Prats, ex vicepresidente di Salvador Allende, venne assassinato dai servizi segreti pinochetisti per le strade di Buenos Aires.
Processo Condor: finalmente giustizia
L'8 luglio 2019 la Corte d'assise d'Appello di Roma ha condannato all'ergastolo 24 tra ex capi di Stato, militari e vertici delle giunte militari e dei servizi segreti di Bolivia, Cile, Uruguay e Perù. Una sentenza storica, che ha ribaltato il primo grado e condannato tutti gli imputati ancora in vita.
Dietro il Condor, celebrato in Italia perché le vittime avevano la cittadinanza italiana, c'è anche Aurora Meloni, tra le cinque promotrici del complicatissimo processo come parte civile. «Siamo partite nel 1999 e per 20 anni abbiamo lavorato sodo per giungere a questo esito, insieme agli avvocati e al procuratore Giancarlo Capaldo, che ringrazio. Ma già nel 2017, in primo grado, era stata fatta giustizia con la condanna dei vertici e il riconoscimento dell'esistenza del Plan Condor: mancavano solo gli ex ufficiali».
Dei condannati, solo uno vive in Italia: è l'ex ufficiale della marina uruguaiana Jorge Troccoli. Ora, però, manca l’ultimo passaggio in Cassazione, visto che tutti i condannati hanno fatto ricorso. «Speriamo si chiuda definitivamente entro fine anno», si augura Aurora.
Da Mujica al neoliberismo: l'Uruguay oggi
Dalla dittatura l'Uruguay è uscito con un accordo tra i militari e le forze politiche per una transizione democratica, a partire dalla metà degli anni Ottanta.
Al governo si sono alternati i due partiti tradizionali, i liberali dei Colorados (più radicati nelle zone urbane) e i conservatori dei Blancos (forti nelle campagne).
Fino al 2004, quando a rompere l'equilibrio ci ha pensato la sinistra del Frente Amplio, che è riuscita a governare per tre mandati di fila: due volte con l'oncologo Tabaré Vázquez, intervallato dall'ex tupamaro Pepe Mujica (2010-2015).
«Pur con molti difetti, quelli del Frente Amplio sono stati sicuramente i migliori governi», è il giudizio di Aurora, che ogni anno torna a Montevideo. «Nessun miracolo, ma politiche a favore della gente, che hanno rilanciato l'economia e migliorato molto i sistemi scolastico e sanitario, riuscendo a preservare la classe media».
Eppure, nonostante il crollo della povertà e l'aumento dei salari, alle ultime presidenziali gli uruguaiani hanno scelto al ballottaggio Luis Alberto Lacalle Pou, leader del Partido Nacional, che ha sconfitto il candidato del Frente Amplio. «Il Paese si è spaccato in due e Lacalle ha beneficiato di una coalizione di cinque partiti, tra cui un partito "militare" e di estrema destra come Cabildo Abierto, fondato da un ex generale dell'esercito e pieno di militari, che in alcuni casi rimpiangono apertamente la dittatura», spiega Aurora.
La ragione di questo cambio? «Non saprei, forse il Frente Amplio non ha comunicato bene il suo lavoro, in verità ha fatto più di quanto sappiano gli uruguaiani».
Il giudizio sul nuovo governo è netto. «Al di là della gestione incerta della pandemia, la strada intrapresa è quella delle riforme neoliberali, come fece Mauricio Macri in Argentina: tariffe pubbliche aumentate, nessun adeguamento delle pensioni né aumenti salariali».
In vista, inoltre, non mancano le privatizzazioni di imprese pubbliche.
Con la pandemia in corso e migliaia di disoccupati, il futuro dell'Uruguay è fosco: «Il rischio è che il Paese sprofondi nuovamente».
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