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Arrivano i rating: Italia declassata. Ma cosa sono?

di Pietro Salemi

PIL, spread e rating sono tra i principali indicatori che vengono richiamati a sostegno di questa o quella politica. Gli stessi fanno da guida per il futuro e da riscontro valutativo per le politiche già intraprese. L'Italia è appena stata declassata (in anticipo) dall'agenzia di rating Fitch e presto arriverà il giudizio di Moody's. Ma cosa sono questi “rating”?


La sera del 28 aprile l'agenzia di rating Fitch ha tagliato il giudizio sui titoli italiani dal livello BBB a quello BBB-, con outlook «stabile»: un gradino sopra l'insieme dei "junk" bond, i titoli di Stato "spazzatura". Standard & Poor's invece aveva recentemente confermato il giudizio, leggermente meno severo.

Fitch, la cui decisione era attesa per il 10 luglio, ha anticipato il pronunciamento, una sorta di procedimento d'urgenza per avere un giudizio in linea con gli stravolgimenti economici e sociali in corso.

L'8 maggio si attende la valutazione di Moody's, la terza delle agenzie che da sole controllano la maggior parte del mercato.

Secondo quest'ultima l'Italia si trova già a un passo dalla soglia "spazzatura". Ma cosa sono questi rating? E cos'è l'outlook?


Le pagelle degli Stati


L’accesso al credito finanziario è una delle principali forme in cui si esprime “la concorrenza” tra i vari Stati, ed è quindi centrale nel dibattito pubblico. Per facilitare la vita di chi investe nei mercati finanziari e per semplificare l’immensa mole di dati e variabili, esistono le agenzie di rating. Queste sono entità private che si occupano di valutare l'affidabilità dei titoli scambiabili sui mercati finanziari (azioni, obbligazioni, ma anche derivati o buoni del debito pubblico) e di chi emette i titoli stessi.


La valutazione viene rappresentata sotto forma di una sorta di pagella detta rating. Quest’ultimo può essere di due tipi: il primo riguarda il merito di credito complessivo del debitore (issuer rating); il secondo valuta il merito di credito del debitore riguardo a una specifica obbligazione finanziaria – es. Buoni del tesoro italiano - o una specifica classe di obbligazioni finanziarie o uno specifico programma finanziario (issue rating), tenuto conto di una serie di fattori di rischio. Una quantità di informazioni molto vasta è riassunta in un semplice ranking, e resa fruibile anche agli investitori meno esperti, che così possono orientare le loro scelte in base al rating.


Proprio per la semplicità della lettura dei rating, non deve stupire che le valutazioni fornite dalle agenzie siano sovente utilizzate da questo o quel partito per orientare l’opinione pubblica su determinati temi. «Ce lo chiedono i mercati» è diventato lo slogan ricorrente all’ora di giustificare l’adozione di provvedimenti normativi (fino addirittura la revisione della Costituzione).


Ma questi “mercati” parlano agli Stati soprattutto per bocca di Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch, e lo fanno attraverso i cd. sovereign ratings, o "rating sovrano", cioè una valutazione sull’affidabilità di uno Stato in un dato momento e la sua capacità ripagare i debiti assunti. La previsione sull'andamento futuro di un rating, cioè se questo possa peggiorare o migliorare, è indicata dall'outlook, il cui valore si riferisce a un lasso temporale che può variare da sei mesi a due anni. Può essere quindi positivo, stabile e negativo, in base alla previsione sull'andamento economico.


Come si elaborano i sovereign ratings?


Nei criteri adottati da Standard & Poor’s, ad esempio, il processo che porta all’emissione dei rating sui titoli sovrani tiene in considerazione i fattori che influiscono sulla volontà e capacità di un governo di onorare il proprio debito alla scadenza stabilita e in maniera integrale”. Detto processo si snoda attraverso più fasi. Inizialmente si procede alla valutazione di cinque fattori chiave: l’efficacia istituzionale e i rischi politici sono riflessi nel punteggio politico; la struttura economica e le prospettive di crescita sono riflessi nel punteggio economico; la liquidità esterna e la posizione internazionale d’investimento sono riflessi nel punteggio esterno; la performance e flessibilità fiscale e l’onere del debito sono riflessi nel punteggio fiscale; la flessibilità monetaria è riflessa nel punteggio monetario.


I mercati che insegnano a votare


«I mercati insegneranno agli italiani a votare nel modo giusto», questa la frase che si lasciò sfuggire Günther Oettinger il 29 maggio 2018, quando il Paese rischiava la paralisi istituzionale per il veto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla nomina di Paolo Savona, considerato una minaccia per l'adesione dell'Italia alla dimensione comunitaria.


La sua affermazione non faceva che sdoganare una funzione “didattica” dei mercati ben presente nel senso comune dell’intero panorama politico-culturale italiano.

I procedimenti democratici degli Stati devono in qualche maniera adeguarsi e conformarsi alla legge dei mercati, e in particolare a quelli finanziari. Insomma, è bello vivere in democrazia finché si trovi il modo di rendere il voto conforme ai desiderata dell'alta finanza.


Questa subalternità della politica rispetto alla finanza è diventata strutturale quando i migliori auspici dei mercati sono stati tradotti in disposizioni costituzionali, come il pareggio di bilancio. L’intento è proprio quello di mettere al riparo determinati dogmi dell'economia liberista da esiti elettorali sgraditi: i governi possono cambiare, ma la sostanza deve restare. Anche nella Costituzione.


La grande mistificazione: ideologia e teologia del mercato


Queste idee sono ormai così radicate che in pochi, come Oettinger, hanno il coraggio di affermarlo sfacciatamente, ma altrettanto in pochi (almeno nei ruoli istituzionali) ne mettono in dubbio la fondatezza. Così si assiste a quella “depoliticizzazione” della democrazia, per cui i rappresentanti eletti dal Popolo nei parlamenti e nei governi si possono paragonare a contabili, amministratori, tecnici chiamati alla gestione più che al governo.

Anche il lessico ne risente e si parla infatti anche in ambito politico di governance. In questa concezione, il “giusto” preesiste al processo democratico e prescinde dai valori sociali o costituzionali, esso è frutto di regole presentate come naturali, al pari di quelle della scienza. I governi potrebbero solo seguirle o sbagliare.

È questa una grande mistificazione che ci viene propinata ormai da decenni. In una società pluralistica, convivono varie idee di “giusto”. In una società politica organizzata democraticamente, tali diverse concezioni di giustizia coesistono, “a monte”, sotto forma di valori e principi costituzionali e vengono poi declinate, “a valle”, sotto forme di leggi decise dai parlamenti, la sede per eccellenza del discorso pubblico, nelle quali le diverse idee sulla società si confrontano e arrivano a sintesi.


Una servitù volontaria


Ma com’è potuto accadere che gli Stati, per definizione entes superiorem non recognoscentes, siano sottoposti alla didattica e alla disciplina dei mercati?

Da un lato, il processo - giunto ormai all’apice - di finanziarizzazione dell’economia; dall’altro, l’emissione di debito pubblico da parte degli Stati in una moneta (l’euro) di cui non controllano l’emissione.


Il primo aspetto attiene alla forza superiore del settore finanziario nell’attuale assetto liberista. A partire dagli anni Settanta e progressivamente nei Novanta, la finanza si è smarcata dal ruolo servente rispetto all’economia reale.

Il moltiplicarsi di titoli derivati, sempre più complessi e opachi; la crescita smisurata del volume degli scambi puramente finanziari, indotti dalla deregolamentazione del mercato finanziario; il ridimensionamento del ruolo delle banche, dato anche dalla contestuale crescita del sistema bancario ombra: tutto ciò ha reso molto più convenienti gli ingenti e rapidi guadagni del mercato finanziario rispetto ai lenti ed esigui ritorni che si possono conseguire – in proporzione - investendo nell’economia reale. Denaro che genera denaro, e lo fa in un tempo minore del lavoro e della produzione di beni.


Ma proprio gli Stati, a partire dalla cd. svolta neoliberista di fine anni ’70, hanno permesso la crescita e la voracità incontrollata del sistema finanziario. Questo secondo aspetto attiene non tanto alla forza dell’oligopolio finanziario, quanto alla debolezza degli Stati, anch’essa in larga parte autoindotta.


Per comprendere in maniera semplice le dinamiche che caratterizzano la speculazione finanziaria è fortemente consigliato – per chi ancora non ne avesse preso visione – il documentario e premio Oscar Inside Job, scritto e diretto da Charles Ferguson, sulla crisi finanziaria del 2008.

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